“Sai, ha scritto qualcosa che irrita molto irritato un magistrato; irritazione che prende corpo in procedimento giudiziario…”. La “disavventura” si conclude con una raccomandazione: quella di stare il più possibile dai tribunali. La “disavventura” è capitata a Giuseppe Prezzolini; ne parlano tra loro Giovanni Amendola e Benedetto Croce; è Croce a raccomandare prudenza e cautela. Le date del carteggio sono significative: giugno del 1911, più di cent’anni fa. Consiglio, raccomandazione, tuttora valido. Anzi, di più, a dare credito alle quotidiane cronache: peraltro omissive; raccontano un decimo di quello che effettivamente si consuma nelle aule di giustizia (e nelle redazioni dei giornali).
A Croce, al suo “consiglio”, alla sua “raccomandazione”, penso ogni volta che si rendono noti i risultati di sondaggi demoscopici: concordi nel certificare che un italiano su due ha poca o nessuna fiducia nei confronti dei magistrati e del modo in cui applicano le leggi di cui, purtroppo, questo Paese è infarcito. Comprendo molto bene questo italiano su due timoroso; e fatico a comprendere come ve ne siano che questo timore non lo coltivino. Non ho remora a confessare che nei confronti della magistratura il sentimento che provo è di paura.
Si parla spesso, si ragiona e si ammonisce intorno a quello che comunemente viene definito “l’errore giudiziario”.
Sia consentita una digressione: parlare di “errore giudiziario” spesso è un alibi, un alleggerirsi la coscienza. Valga il monito di Alessandro Manzoni: quasi sempre si tratta di ‘errori’ ben visibili, evitabili. Visibili ed evitabili proprio da parte di chi li commette: trasgrediscono le regole ammesse da loro per primi. Conviene lasciar parlare lo stesso Manzoni, e riportare il brano dell’introduzione alla “Storia della colonna infame” (un testo che andrebbe studiato in tutti i corsi per diventar magistrati e giuristi):
“…Se, in un complesso di fatti atroci dell’uomo contro l’uomo, crediam di vedere un effetto de’ tempi e delle circostanze, proviamo, insieme con l’orrore e con la compassion medesima, uno scoraggimento, una specie di disperazione. Ci par di vedere la natura umana spinta invincibilmente al male da cagioni indipendenti dal suo arbitrio, e come legata in un sogno perverso e affannoso, da cui non ha mezzo di riscotersi, di cui non può nemmeno accorgersi. Ci pare irragionevole l’indegnazione che nasce in noi spontanea contro gli autori di que’ fatti, e che pur nello stesso tempo ci par nobile e santa: rimane l’orrore, e scompare la colpa; e, cercando un colpevole contro cui sdegnarsi a ragione, il pensiero si trova con raccapriccio condotto a esitare tra due bestemmie, che son due deliri: negar la Provvidenza, o accusarla. Ma quando, nel guardar più attentamente a que’ fatti, ci si scopre un’ingiustizia che poteva esser veduta da quelli stessi che la commettevano, un trasgredir le regole ammesse anche da loro, dell’azioni opposte ai lumi che non solo c’erano al loro tempo, ma che essi medesimi, in circostanze simili, mostraron d’avere, è un sollievo il pensare che, se non seppero quello che facevano, fu per non volerlo sapere, fu per quell’ignoranza che l’uomo assume e perde a suo piacere, e non è una scusa, ma una colpa; e che di tali fatti si può bensì esser forzatamente vittime, ma non autori”.
Il passaggio chiave:
“…Se non seppero quello che facevano, fu per non volerlo sapere, fu per quell’ignoranza che l’uomo assume e perde a suo piacere, e non è una scusa, ma una colpa…”.
Manzoni ne scrive al passato; nel parafrasarlo si può usare il presente indicativo, e coltivare un certo timore per quel che riguarda un futuro prossimo. Quando i principi ci sono, le regole si conoscono e si dispone anche di adeguati strumenti, l’‘errore’ commesso cessa di essere tale: i principi non si prendono in considerazione; le regole sono disattese perché così si vuole.
Una pagina esemplare, la si ricava da uno dei più famosi e cupi racconti di Sciascia, ‘Il contesto’. L’ispettore Amerigo Rogas è a colloquio con un alto magistrato, il presidente Riches. Quest’ultimo espone la sua idea di giustizia, terrificante requisitoria di cui si trova quotidiana applicazione ogni giorno:
«Prendiamo la messa: il mistero della transustanziazione, il pane e il vino che diventano corpo, sangue e anima di Cristo. Il sacerdote può anch’essere indegno, nella sua vita, nei suoi pensieri: ma il fatto che è stato investito dall’ordine, fa sì che ad ogni celebrazione il mistero si compia. Mai, dico mai, può accadere che la transustanziazione non avvenga. E così è un giudice quando celebra la legge: la giustizia non può non disvelarsi, non transustanziarsi, non compiersi…».
L’errore giudiziario non esiste, conclude il magistrato; e dopo aver individuato in Voltaire, e il suo ‘Traité sur la tolérance a l’occasion de la mort de Jean Calas’, il punto di partenza da cui si è cominciato a erodere, a mettere in discussione la sacralità del giudice-sacerdote, conclude:
«La sola forma possibile di giustizia, di amministrazione della giustizia, potrebbe essere, e sarà, quella che nella guerra militare si chiama decimazione. Il singolo risponde dell’umanità. E l’umanità risponde del singolo. Non ci potrà essere altro modo di amministrare la giustizia. Dico di più: non c’è mai stato. Ma ora viene il momento di teorizzarlo, di codificarlo. Perseguire il colpevole, i colpevoli, è impossibile, praticamente impossibile, tecnicamente. Non è più il cercare l’ago nel pagliaio, ma il cercare nel pagliaio il filo di paglia…».
In questo rimando di citazioni, una terza, ancora di Sciascia, tratta da ‘Una storia semplice’; che tutto è meno che semplice. Complicatissima, anzi, nella sua ‘semplice’ narrazione. Ecco la pagina in cui il vecchio professore viene interrogato dal suo ex alunno, diventato magistrato inquirente.
“Si ricorda di me?”. “Certo che mi ricordo”, fa il professore. “Posso permettermi di farle una domanda?… Poi gliene farò altre, di altra natura… Nei componimenti d’italiano lei mi assegnava sempre un tre, perché copiavo. Ma una volta mi ha dato un cinque: perché?”. “Perché aveva copiato da un autore più intelligente”. Il magistrato scoppiò a ridere. “L’italiano: ero piuttosto debole in italiano. Ma, come vede, non è poi stato un gran guaio: sono qui, procuratore della Repubblica…”. “L’italiano non è l’italiano: è il ragionare”, disse il professore. “Con meno italiano, lei sarebbe ancora più in alto”.
La letteratura è piena di figure di magistrati, di “uomini di legge”. Uno dei più famosi è il giudice Selah Lively, di Edgar Lee Masters:
“Immagina di essere alto un metro e cinquantotto
e di avere iniziato a lavorare come garzone in una drogheria
studiando legge a lume di candela
finchè non sei diventato avvocato.
E poi immagina che, grazie alla tua diligenza
e alla frequentazione regolare della chiesa,
tu sia diventato il legale di Thomas Rhodes,
che collezionava cambiali e ipoteche,
e rappresentava tutte le vedove
davanti alla Corte. E che in tutto questo
ti canzonassero per la tua statura e ridessero dei tuoi vestiti
e dei tuoi stivali lucidi. E poi immagina
di essere diventato Giudice di Contea.
E che Jefferson Howard e Kinsey Keene,
e Harmon Whitney, e tutti i giganti
che ti avevano schernito, fossero obbligati a stare in piedi
davanti al banco e a dire “Vostro Onore” –
Beh, non pensi che sarebbe naturale
che io rendessi loro la vita difficile?”.
Ecco, questo è sicuramente un modo di amministrare la legge, nel rispetto delle regole; e di negare al tempo stesso giustizia.
Può bastare. Consideriamoli, questi testi, una sorta di contravveleno; testimonianza, per dirla con il poeta francese Renè Char, di ‘fantastica amicizia’ da opporre ai “tempi dei monti furenti” che tocca vivere e patire.
Quello che accade, in parole povere, è questo: uno studente consegue una laurea in legge, supera un concorso; ecco che in “automatico” assume un potere straordinario, che ha pochi eguali, sui propri simili. Il potere di stabilire cos’è giusto e cosa è sbagliato; cosa va sanzionato e come… Perché la legge, le leggi, ancorché imperfette spesso, ancora più spesso solo elastiche e consentono ampi margini discrezionali. E in caso di “errore giudiziario”, anche quando non si tratta di “errore”, chi lo commette può contare su una sostanziale impunità.
L’evangelista Matteo racconta che Gesù, sale sul monte. Ai discepoli dice che i poveri in spirito devono ritenersi beati:
“…perché di essi è il regno dei cieli…”; ed esorta a non giudicare, “per non essere giudicati; perché con il giudizio con il quale giudicate sarete giudicati voi e con la misura con la quale misurate sarà misurato a voi”.
Allo scrittore francese Andrè Gide capita l’esperienza di fare da Giudice Popolare in un processo. Ne esce segnato, traumatizzato. Al punto che per l’editore Gallimard cura una collana di testi intitolata: “Non giudicate”.
Proposito nobile, al tempo stesso utopico. Individualmente si può scegliere di rinunciare a giudicare il comportamento, le azioni di un nostro simile. Una società, uno Stato, questo lusso non se lo può permettere e consentire.
Leonardo Sciascia, intellettuale che per sua stessa ammissione era letteralmente ossessionato dalla giustizia e di come si amministra, avverte:
«Una parte della magistratura non riesce a introvertire il potere che le è assegnato, ad assumerlo come dramma, a dibatterlo ciascuno nella propria coscienza, ma tende piuttosto ad estrovertirlo, ad esteriorizzarlo, a darne manifestazioni che sfiorano, o addirittura attuano l’arbitrio. Quando i giudici godono il loro potere invece di soffrirlo, la società che a quel potere li ha delegati, inevitabilmente è costretta giudicarli. E siamo a questo punto…».
Da tempo immemorabile s’usa dire che «la Giustizia in Italia è malata!». Ottimistica affermazione: più che malata si dovrebbe dire che agonizza, moribonda.
Quanto al giornalista, ai doveri di chi fa informazione, posso qui partire da testimonianze vissute in prima persona. Per via del mio lavoro di inviato, mi sono occupato per anni del “caso Tortora” che in realtà è il caso di centinaia di persone arrestate (il “venerdì nero della camorra”, siamo nel giugno del 1983), per poi scoprire che erano finite in carcere per omonimia o altro tipo di “errore” facilmente rilevabile prima di commetterlo: si era voluto dare credito, senza cercare alcun tipo di riscontro, a personaggi come Giovanni Pandico, Pasquale Barra ‘o animale, Gianni Melluso. Ho visto decine e decine di volte le immagini di quel maxi-processo, per “montare” i miei servizi, e decine e decine di volte quella convinta requisitoria del dottor Diego Marmo, che a un certo punto pone una retorica domanda: “…Ma lo sapete voi che più cercavamo le prove della sua innocenza, più emergevano elementi di colpevolezza?”.
Chi scrive tra i primi ha denunciato che in quell’operazione che aveva portato Tortora in carcere, c’era molto che non andava; fin dalle prime ore, il perverso intreccio tra magistrati e cronisti giudiziari: Tortora viene arrestato nel cuore della notte, lo trattengono nel comando dei carabinieri fino a tarda mattinata: lo fanno uscire solo quando sono ben sicuri che televisioni e giornalisti sono accorsi per poterlo mostrare in manette. Già quel modo di fare è sufficiente per insinuare dubbi, perplessità. Ancora oggi non sappiamo chi diede quell’ordine che porta alla prima di una infinita serie di mascalzonate.
Veniamo al perché tutto ciò è accaduto, si è voluto accadesse. Forse una risposta sono riuscito a trovarla, e a suo tempo, sempre per il “TG2”, riuscii a realizzare dei servizi mai stati smentiti, che ci riportano a uno dei periodi più oscuri e melmosi dell’Italia di questi anni: il rapimento dell’assessore all’urbanistica della Regione Campania Ciro Cirillo da parte delle Brigate Rosse di Giovanni Senzani, e la conseguente, vera, trattativa tra Stato, terroristi e camorra di Raffaele Cutolo. Per la vita di Cirillo viene chiesto un riscatto, svariati miliardi. Il denaro si trova, anche se durante la strada una parte viene trattenuta non si è mai ben capito da chi. Anche in situazioni come quelle c’è chi si prende la “stecca”. A quanto ammonta il riscatto? Si parla di circa cinque miliardi. Da dove viene quel denaro? Raccolto da costruttori amici. Cosa non si fa, per amicizia! Soprattutto se poi c’è un “ritorno”.
Il “ritorno” si chiama ricostruzione post-terremoto, i colossali affari che si possono fare; la commissione parlamentare guidata da Oscar Luigi Scalfaro accerta che la torta è costituita da oltre 90mila miliardi di lire. Peccato, molti che potrebbero spiegare qualcosa, non sono più in condizione di farlo: sono tutti morti ammazzati: da Vincenzo Casillo luogotenente di Cutolo, a Giovanna Matarazzo, compagna di Casillo; da Salvatore Imperatrice, che ha un ruolo nella trattativa, a Enrico Madonna, avvocato di Cutolo; e, tra gli altri, Antonio Ammaturo, il poliziotto che aveva ricostruito il caso Cirillo in un dossier spedito al Viminale, mai più ritrovato.
Questo il contesto. Ma quali sono i fili che legano Tortora, Cirillo, la camorra, la ricostruzione post-terremoto? Ripercorriamoli. Che l’arresto di Tortora costituisca per la magistratura e il giornalismo italiano una delle pagine più nere e vergognose della loro storia, è assodato. Lo si sia fatto in buona o meno buona fede, cambia poco. Le “prove”, per esempio, erano la parola di Giovanni Pandico, camorrista schizofrenico, sedicente braccio destro di Cutolo lo interrogano diciotto volte, solo al quinto si ricorda che Tortora è un cumpariello; e Pasquale Barra: un tipo che in carcere uccide il gangster Francis Turatello e ne mangia per sfregio l’intestino…Con le loro dichiarazioni danno il via a una valanga di altre accuse da parte di altri quindici sedicenti “pentiti”: curiosamente, si ricordano di Tortora solo dopo che la notizia del suo arresto è diffusa da televisioni e giornali. C’è poi un numero di telefono trovato in un’agendina di una convivente di un capo clan. Sotto la T, leggono Tortora; in realtà quel nome corrisponde a Tortona, riscontrarlo è facile, basta comporre il numero. Non lo fa nessuno.
C’è poi un documento importante che rivela come vennero fatte le indagini, ed è nelle parole di Silvia Tortora, la figlia. Le chiedo di rispondere con un SI’ o con u NO alle mie domande:
Quando suo padre viene arrestato oltre alle dichiarazioni di Pandico e Barra c’era altro?
“No”.
Suo padre è mai stato pedinato, per accertare se davvero era uno spacciatore, un camorrista?
“No, mai”.
Intercettazioni telefoniche?
“Nessuna”.
Ispezioni patrimoniali, bancarie?
“Nessuna”.
Si è mai verificato a chi appartenevano i numeri di telefono trovati su agende di camorristi e si diceva fossero di suo padre?
“Lo ha fatto, dopo anni, la difesa di mio padre. E’ risultato che erano di altri”.
Suo padre è stato definito cinico mercante di morte. Su che prove?
“Nessuna”.
Suo padre è stato accusato di essersi appropriato di fondi destinati ai terremotati dell’Irpinia. Su che prove?
“Nessuna. Chi lo ha scritto è stato poi condannato”.
Qualcuno ha chiesto scusa per quello che è accaduto?
“No”.
A legare il riscatto per Cirillo raccolto i costruttori, compensati poi con gli appalti e la vicenda Tortora, non è un giornalista malato di dietrologia e con galoppante fantasia complottarda. È la denuncia, anni fa, della Direzione Antimafia di Salerno: contro Tortora erano stati utilizzati “pentiti a orologeria”; per distogliere l’attenzione della pubblica opinione dal gran verminaio della ricostruzione del caso Cirillo, e la spaventosa guerra di camorra che ogni giorno registra uno, due, tre morti ammazzati tra cutoliani e anti-cutoliani. Fino a quando non si decide che bisogna reagire, fare qualcosa, occorre dare un segnale.
E’ in questo contesto che nasce “il venerdì nero della camorra”, che in realtà si rivelerà il “venerdì nero della giustizia”. Nessuno dei “pentiti” che ha accusato Tortora è stato chiamato a rispondere per calunnia. I magistrati dell’inchiesta hanno fatto carriera. Solo tre o quattro giornalisti hanno chiesto scusa per le infamanti cronache scritte e pubblicate. Il dottor Marmo dice di aver agito in buona fede, non c’è motivo di dubitarne. Ma la questione va ben al di là della buona fede di un singolo. Stroncato dal tumore, Enzo ha voluto essere sepolto con una copia della “Storia della colonna infame”, di Alessandro Manzoni. Sulla tomba un’epigrafe, dettata da Leonardo Sciascia: “Che non sia un’illusione”.
Vittorio Feltri, all’epoca inviato del “Corriere della Sera”, per la “Domenica del Corriere” nell’ottobre 1985 scrive un articolo che dovrebbe essere studiato nelle facoltà universitarie di giornalismo, una sorta di manuale. Ne propongo uno stralcio:
“…Ho visto giornalisti che si sbranavano e io mi sono trovato nell’arena. Ero arrivato a Napoli, diciamo agnostico, e per la mia riluttanza a sposare la tesi colpevolista sono stato bollato innocentista, come fosse un’infamia. E deriso. La corporazione voleva a larga maggioranza la condanna di Tortora, neanche si trattasse di una conquista per la categoria. Ma perché tanto accanimento? Ho avuto l’impressione di uno scoppio di irrazionalità, di una specie di tifo cieco analogo a quello degli stadi, alimentato, per giunta, dall’antipatia dell’imputato e dal suo modo ora goffo ora insolente, di difendersi. Un collega lo odiava perché con la Tv aveva strappato un facile successo, e scordava che, se il successo fosse facile, l’avrebbe avuto anche lui. Ha inciso anche la sua popolarità: troppa per essere perdonata da chi non ne ha affatto. Ed ora che il presentatore era a terra, il piacere di sferrargli delle pedate era voluttuoso. Durante la lettura della sentenza ho visto cose turpi. Il nome di Tortora tardava a essere pronunciato. Che fra i colpevoli non ci sia? I giornalisti si interrogavano con lo sguardo, increduli, delusi, amareggiati. Parecchi avevano scommesso sulla condanna, avevano investito articoli ed articoli e temevano di essere sconfessati. Uno si volta e, allargando le braccia mi sussurra: vedrai che l’hanno assolto, mi toccherà andare in giro coi baffi finti. Ma la sua disperazione, e non solo la sua, è durata poco: “Tortora Enzo… dieci anni di reclusione e 50 milioni di multa” ha detto il presidente Sansone. Qualcuno ha stretto i pugni dalla felicità, altri hanno sorriso, sia pure con moderazione, dato il momento. Era come se la loro squadra avesse segnato in trasferta. E alla sera, ho saputo, hanno brindato: alla faccia di Tortora…”.
Nessun provvedimento è stato preso nei confronti di quei giornalisti; tutti impuniti, come i magistrati; pochissimi hanno chiesto scusa. E’ accaduto per Tortora; e ogni giorno, per i tanti Tortora che non chiamandosi Tortora non interessano a nessuno.
Dal 1991 al 2019 si sono censiti ben 28.893 “errori giudiziari”: circa mille l’anno; più di tre al giorno. Si tratta di “errori/orrori” che stravolgono e “segnano” in modo indelebile chi ne è vittima, e le loro famiglie; e poi il grave peso in termini economici: indennizzi e risarcimenti che gravano sulle casse dello Stato, e dunque del cittadino. Ogni anno circa 28 milioni e 400mila euro di rimborsi; dal 1991 al 2019 circa 824 milioni di euro.
Dati ufficiali, forniti dai Ministeri dell’Economia e della Giustizia. Nel solo 2019 le ingiuste detenzioni riconosciute sono un migliaio, oltre 44 milioni di euro di risarcimenti e indennizzi.
Come si vede, cifre sono da capogiro. Occorre poi tener presente che i casi di ingiusta detenzione potrebbero essere molti di più rispetto a quelli che risultano dal censimento ufficiale: che tiene presente solo i casi in cui si giunge a un effettivo risarcimento per i giorni ingiustamente trascorsi in carcere o agli arresti domiciliari. Accade infatti che delle domande di riparazione presentate alle corti d’appello, una gran parte vengono respinte: almeno un terzo.
L’Unione Camere Penali denuncia:
“Nei Palazzi di Giustizia e negli Istituti di pena, i ritardi per giungere a sentenza, dovuti all’enorme carico processuale, si sono ulteriormente aggravati per l’emergenza sanitaria, che ha ridotto il personale e ha imposto la drastica diminuzione dei fascicoli da trattare in udienza […] I tempi della Giustizia saranno, pertanto, ancora più lunghi, con gravi riflessi individuali su imputati e persone offese e conseguenze negative per la credibilità del Paese e per la sua economia“.
Avrei voluto con tutto il cuore poter smentire, non dico tutto, anche solo una parte, di quello che scrivono Gino Di Tizio e Cristiano Sicari. No, invece. Non posso che condividere e sottoscrivere ogni sillaba di quello che scrivono. Di più: sono convinto, sulla scorta dei tanti casi che ho conosciuto e cercato di documentare in servizi per il telegiornale, in articoli e libri, che la situazione sia perfino peggiore di quella che ci siamo sforzati di descrivere. Il “sistema” (così lo chiama Luca Palamara) è un qualcosa che ci trasciniamo da decenni, e molto più esteso, ramificato di quanto si creda. S’usa dire che non si deve generalizzare: una mela marcia non comporta che lo siano tutti le altre nel cesto. Si può ormai dire che le mele sane sono una minoranza. Prima se ne prenderà coscienza e conoscenza, meglio sarà per tutti.